La scena madre di America Latina, terzo lungometraggio dei gemelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, presentato in concorso alla 78a Mostra di Venezia, è un crescendo rosso di pianoforte e paranoia che si conclude in una spirale di parossismo metaforica e non, con tanto di camera a spalla ribaltata. Il dialogo alla scena successiva, la quiete dopo la tempesta, è una delle possibili chiavi di lettura del film e ha come oggetto la violenza, o meglio, per gli spettatori, il discorso sulla violenza. È necessaria una vita votata alla prevaricazione 24 ore su 24 per definire una persona violenta? È possibile fare i conti con eventi irreversibili e intraprendere un percorso di presa di coscienza? Le parole escono delicate dalle bocche dei personaggi, ma le riflessioni penetrano a fondo.
Protagonista di queste scene, come d’altronde di sostanzialmente tutti i 90 minuti di runtime, è Elio Germano, già protagonista in Favolacce. Germano è Massimo Sisti, dentista affermato e titolare di un suo studio che vive in una villa fuori Latina con la moglie (interpretata da Astrid Casali) e le figlie (Carlotta Gamba e Federica Pala). La sinossi ufficiale lo descrive “professionale, gentile, pacato”. C’è una volontà evidente di dare risalto a queste caratteristiche, proprie di un sentire maschile più contemporaneo, e di marcare la differenza con il personaggio interpretato da Germano nel secondo film dei D’Innocenzo, un altro padre di famiglia che però non si faceva troppi problemi a lasciar tracimare la propria ferinità, seppur in un contesto più corale rispetto all’intimità di America Latina. Dissentiamo dall’impostazione. È di fatto presentato come un piagnone, ma Massimo Sisti è una persona normale (e scusate il termine): ama le persone con cui ha deciso di condividere la vita, si sforza di rispettare il prossimo, ha interazioni sincere con gli amici (se ne vede solo uno in realtà, interpretato da Maurizio Lastrico: un genovese che vende auto usate nell’Agro Pontino? Strano, ma è perfetto), soffre per un rapporto complicato con il padre.
A un certo punto scorre l’elenco di chiamate sul cellulare per cercare di ricostruire le sue ultime giornate. Sul display leggiamo 2021 e abbiamo un piccolo sussulto. Questa è la realtà oggi, non quella degli anni ’70 dei colori degli arredamenti, dell’architettura banalmente eccentrica della villetta, dei bar prefabbricati in mezzo alla campagna, della grana ruvida dei titoli di testa che scorrono in orizzontale quando ancora siamo ignari di quello che accade sotto la superficie.
La nuca rasata di Germano sulla locandina ufficiale del film che si rompe come un guscio d’uovo sotto la pressione sociale e psicologica dell’essere maschi oggi ci lascia intravedere un abisso nero. Prendiamola come un’utile provocazione. Il film si impegna a ricordarci che la realtà è ancora questa. Pensiamo di essere emancipati, di avere tutto sotto controllo, ma ci sono ancora migliaia, milioni di Massimo Sisti che non sono certi di ricordare quello che hanno fatto dopo la birretta del martedì, che nonostante una vita invidiabile hanno bisogno degli psicofarmaci per starci dentro. L’insicurezza tossica che prospera all’interno di Massimo Sisti è una versione di quella che corrode gli involucri di tanti di noi.
I registi hanno uno sguardo raffinato, studiano ogni inquadratura e giocano con l’estetica. Se serve ci depistano, ci ingannano, ma soprattutto ci ricordano che per loro la forma film è un’espressione prettamente artistica, il cui messaggio è essa stessa (e se siamo interessati lo assorbiamo più per osmosi che per maieutica) e non è custodito nella linea narrativa, in questo caso fin troppo scarna e povera di guizzi creativi.
Che poi stiamo facendo i conti senza considerare l’elefante nella stanza, l’Evento Irreversibile #1, subito dopo pochi minuti, nascosto nel più classico dei basement da film horror americano, una cantina che si sporca al posto della casa, mondata invece in continuazione da un limpido sole primaverile. Ciò che è racchiuso lì sotto squarcia la routine del protagonista e lo scaraventa giù per un piano inclinatissimo, dal quale non fa nulla per tentare di risalire. La mancante presa di coscienza. Qui America Latina mette alla prova il pubblico: lo inchioda alla poltrona e lo costringe a vivere l’inquietudine crescente di Massimo Sisti; a empatizzare con un’angoscia che va ben oltre la tensione cinematografica per diventare malessere diffuso; a seguirlo in macchina per le lande spoglie e nei parcheggi della Louisiana, o della Florida, con tappa occasionale al liquor store.
Le atmosfere sono spesso eteree, il pianoforte sottolinea i passaggi più onirici. Altre volte ci ritroviamo alle porte dell’inferno; o dentro il videoclip di Karma Police. Rarefatti sono anche i dialoghi, precisi ma ridotti all’osso. Le musiche originali strumentali dei Verdena descrivono ambienti in cui è rimasto poco spazio per la collettività.
Un tempo qui l’impero aveva portato il cuore della sua propaganda, ma ora il centro è lontano. La periferia si svuota, si stacca e va alla deriva. E intanto sotto, anche se non lo vediamo, anche se chiudiamo la porta della cantina a chiave, l’acquitrino piano piano risale.