«Incredibile: si pensa che le persone siano del tutto buone o cattive. Che il bene sia la luce e l’oscurità il male. Ma dov’è l’oscurità, dov’è la luce? Dov’è il confine del male? E da che parte stare? Quella giusta o quella sbagliata?»
Queste le parole del film Le corbeau di Henri-Georges Clouzot del 1943, inserite nel cuore della serie Netflix Grégory, a sottolineare il non detto di una vicenda francese fosca e tristissima, di cui quest’anno ricorre il quarantesimo anniversario.
Sono le 17:00 del 16 ottobre del 1984 a Lépanges-sur-Vologne, nel dipartimento dei Vosgi: Grégory Villemin, un bambino di quattro anni, scompare mentre gioca davanti casa. La mamma Christine, finito di stirare, lo cerca dappertutto, ma senza trovarlo: ne denuncia la scomparsa alle 17:50. Verso sera, sono le 21:15 circa, la polizia ritrova il piccolo cadavere nel canale della Vologne, a sette chilometri da casa, con mani e gambe legate da un filo. Il cadavere, coperto in volto, non mostra segni di violenza: lo si può riconoscere nitidamente nelle foto dell’epoca.
Le immagini fissate sulla carta fotografica, i volti dei protagonisti di questa storia, hanno un ruolo fondamentale nell’orientare le indagini e la ricerca dell’assassino. La stampa, infatti, prende il sopravvento. I giornalisti cominciano a investigare, intessendo relazioni ed entrando, a volte, in stretto contatto con la famiglia Villemin. Un gruppo che, fin dall’inizio, dà l’impressione di essere un clan chiuso, al cui interno serpeggiano invidie, gelosie e segreti mai confessati, che fanno stringere alleanze e suscitano fazioni. Soprattutto contro il papà di Grégory, Jean-Marie, tacciato di aver avuto semplicemente “successo” come caposquadra nella fabbrica di automobili Autocoussin.
Una tensione che emerge durante gli interrogatori, ma che si intuisce anche da altro. Nei due anni precedenti la morte del piccolo Grégory, la famiglia ristretta dei Villemin – i genitori, i nonni, gli zii – riceve chiamate mute e messaggi minatori. L’autore è il cosiddetto Corvo, una voce senza identità che tenta di smascherare, senza riuscirci, i misteri di famiglia.
Il Corvo è chiamato per le sue lettere anche Le corbeau, come il protagonista del film omonimo di Clouzot. Proprio il giorno successivo la morte di Grégory, un messaggio indirizzato al padre del bambino ne rivendica il delitto. «Spero che morirai di dolore, capo. Non è il denaro che ti ridarà tuo figlio. Questa è la mia vendetta, stronzo».
Inizialmente, gli inquirenti arrivano a sospettare di Bernard Laroche, cugino di Jean-Marie, denunciato poi dalla cognata Murielle Bolle, allora quindicenne. Nonostante l’incarcerazione, iniziano i colpi di scena. Murielle ritratta più volte, accusa i gendarmi di averla minacciata, dice che il cognato è innocente. E così, alla fine, Bernard esce dal carcere: non ci sono prove contro di lui. Jean-Marie, però, è convinto della sua colpevolezza, tanto da arrivare a minacciarlo e poi a ucciderlo con un colpo di fucile. Una morte preannunciata, in un caso così complesso che tutti (gendarmi, magistratura, mezzi di comunicazione) perdono di vista l’obiettivo: trovare l’assassino di Grégory.
Quel bambino di quattro anni, il cui corpo senza vita è stato il primo a finire sotto i riflettori, diventa semplicemente la prima foto di un’inchiesta i cui protagonisti sono altri, e il cui obiettivo è soltanto infangare la parte avversa della famiglia. La verità si perde fra gli intrighi, le allusioni, i battibecchi a porte chiuse: cugini che si odiano, fratelli che sospettano, genitori che mentono, cognati che nascondono.
Come durante il processo a Jean-Marie Villemin, nel novembre 1993, per l’omicidio del cugino. Sei settimane di udienze, accuse reciproche, intimidazioni, minacce, e una condanna a soli cinque anni di carcere per il padre di Grégory, considerata l’attenuante delle condizioni drammatiche in cui il delitto è maturato.
Questa bolla di non senso viene amplificata dalla stampa, così invadente da manipolare anche il significato degli sguardi in una fotografia. Il dolore di una coppia che perde il figlio, e non sa darsi pace del perché la tragedia sia avvenuta, si trasforma in occhiate che alluderebbero alla colpevolezza di lei, Christine Villemin, poi effettivamente accusata dell’omicidio del figlio e fatta arrestare sette mesi dopo.
Le prove a carico sono molto labili: una perizia calligrafica che attribuisce a lei la mano del Corvo, dopo essere stata inizialmente attribuita a Bernard Laroche, oltre che il ritrovamento, in casa Villemin, di fascette simili a quelle rinvenute sul cadavere del piccolo. Nulla di più. Così viene scarcerata, diventando però l’oggetto espiatorio dell’ossessione mediatica. Fino alla sentenza, nel 1993, di non luogo a procedere nei suoi confronti per totale mancanza di prove, per l’opinione pubblica Christine è la colpevole indiscussa. Una donna in pasto alla gogna mediatica, della quale vengono interpretate le espressioni facciali e offerte analisi psicologiche senza senso.
Come la scrittrice Marguerite Duras, che sulle pagine di «Libération» la descrive come una madre infanticida in rivolta contro l’ordine patriarcale, articolo che scatena polemiche così forti da costringere il direttore del giornale a scusarsi per non aver tenuto in considerazione quella che viene definita come presunzione di innocenza, presupposto necessario in tutti i casi giudiziari. E particolarmente in questo: nelle cento pagine redatte dalla Corte d’Appello di Digione che scagionano definitivamente Christine Villemin, si riconosce pubblicamente che «l’inchiesta è stata resa difficile dalla mancanza delle indagini iniziali, dagli errori di procedura, dalla rivalità polizia-gendarmeria, dalle critiche tra specialisti, e dalla copertura mediatica estrema di questo misterioso dramma».
Tant’è che nel 2002 la Francia viene condannata a risarcire la vedova Laroche e la sorella Murielle per «inefficienza nell’adempimento del proprio dovere» e «totale mancanza di controllo nella conduzione delle indagini», mentre due anni dopo sono i coniugi Villemin a ricevere una indennità da parte dello Stato, reo nei loro confronti di «colpa grave».
E nonostante il caso sia stato riaperto più volte, grazie al supporto di nuove tecnologie nell’analisi delle prove, come il DNA, il colpevole della morte di Grégory è ancora impunito.