Nel 2017 esce Handia (che vuol dire ‘grande’ e si legge andìa), un film diretto da Aitor Arregi e Jon Garaño integralmente girato in euskera, la lingua basca, che racconta la storia reale di Mikel Joakin Eleizegi Arteaga, un uomo nato nel XIX secolo ad Altzo, un piccolo villaggio dell’entroterra basco-spagnolo, e affetto da una rara forma di gigantismo. Anche se uscito alcuni anni fa, il film è disponibile sul catalogo italiano di Netflix ed è un’ottima occasione per recuperare una storia emozionante e vivere l’insolita esperienza di guardare un film in euskera (non c’è il doppiaggio in italiano)
Nell’anno di uscita, Handia viene presentato al 65° Festival internazionale del cinema di San Sebastián (Zinemaldia, per chi se ne intende). Se nell’occasione la pellicola vincerà il Premio Speciale della Giuria, l’anno successivo si porterà a casa ben 10 premi Goya, il massimo riconoscimento cinematografico spagnolo, tra cui Miglior attore esordiente (Eneko Sagardoy) e Miglior sceneggiatura originale. Nella storia di questi premi hanno fatto meglio solo ¡Ay Carmela! di Carlos Saura (1990, 13 premi) e Mare dentro di Alejandro Amenábar (2005, 14 premi).
Per essere un film parlato per il 95% in basco, e provenire quindi da una nicchia all’interno del panorama cinematografico spagnolo, Handia ha potuto contare su un budget di 3,5 milioni di euro, una cifra non indifferente in termini assoluti, anche se forse ridotta se si considera la storia raccontata e gli effetti necessari. Arregi e Garaño hanno perciò portato in scena una pellicola sobria ma mai sciatta che sviluppa i suoi temi coinvolgendo emotivamente lo spettatore.
Sin dai primi minuti siamo catapultati all’interno della Storia. Prima di avvisarci che quelli che seguono sono eventi reali, i titoli di testa riferiscono che la fine del XVIII e tutto il XIX secolo in Europa sono segnati da conflitti che hanno come oggetto le tensioni tra il vecchio e il nuovo regime. È il 1836 e in piena notte l’esercito carlista si presenta alla fattoria in mezzo ai monti dove vivono e lavorano, insieme al resto della famiglia, i fratelli Martín (Joseba Usabiaga) e Joaquín (Eneko Sagardoy). I carlisti hanno bisogno di uomini e Martín è il figlio che il padre decide di spedire in guerra, tenendo Joaquín a lavorare alla fattoria.
Martín non si capacita dell’ingiustizia che sta subendo, è disorientato, e si trova da un giorno all’altro a combattere sui monti e nelle valli al fianco di altri baschi e navarresi di estrazione rurale, con il basco rosso in testa (il segno distintivo dei carlisti) e il fucile con la baionetta (altra invenzione basca) nelle mani. Gli occhi malinconici di Usabiaga descrivono un ragazzo che si sente tradito, esiliato dagli affetti e dal mondo in cui aveva sempre vissuto; un ragazzo che in fondo è anche un inetto e che in uno scontro a fuoco viene ferito e perde l’uso del braccio destro.
La guerra finisce e Martín torna a casa, consapevole che non potendo contribuire alle attività della fattoria finirà per essere un peso in una famiglia che già sfama con difficoltà le tante bocche presenti. Quando però entra in chiesa per riabbracciare dopo tanto tempo gli abitanti del suo mondo che erano lì riuniti, si accorge che suo fratello Joaquín è diventato un gigante.
Nonostante la bizzarra presenza di un ragazzo alto quasi due metri e mezzo, il film ci mostra alcune immagini di vita familiare. Siamo in quella che nei sottotitoli italiani appare come ‘fattoria’ ma che in basco è il baserri, la dimora rurale tipica della zona. Il baserri era il nucleo attorno al quale nel passato si sviluppava la società basca, che curava le proprie terre e il proprio stile di vita al ritmo delle stagioni. Come per tanti nuclei dell’epoca, la sorte e l’andamento del baserri degli Eleizegi avrà anche una parte nella vicenda raccontata in Handia, perché determinante per la sussistenza della famiglia.
Invalido e senza arte né parte, per sfuggire alla povertà Martín pensa all’idea di esporre il fratello gigante in giro per i paesi. Nel farlo coinvolge l’imprenditore Arzadun (Iñigo Aranburu), che aveva conosciuto qualche tempo prima a Tolosa, un paese vicino Altzo: una sorta di versione basca del circense Barnum.
È a questo punto che si manifesta la dicotomia che il film suggerisce sin dalle prime scene, quella tra una società immutabile scandita dalle abitudini e un cosmo in trasformazione. I fratelli lasciano il piccolo mondo contadino per calcare il palcoscenico del grande mondo fuori dalle valli e dalle montagne che avevano sempre costituito i loro confini esistenziali.
Escono per andare incontro a soldi ed emancipazione, assaporando il brivido dell’ignoto e della scoperta ma anche il senso di inadeguatezza e umiliazione (a un certo punto Joaquín sarà costretto a spogliarsi di fronte alla regina Isabella II curiosa di saper se è vero quel che si dice intorno ai giganti). Il primo grande scoglio che si trovano davanti è però quello della lingua: se da una parte Joaquín non capisce altro che il basco, Martín si accorge presto che deve almeno migliorare il suo spagnolo molto rudimentale se vuole sperare di guadagnare un suo posto fuori da casa.
Le stupende prove attoriali di Sagardoy e Usabiaga danno vita sullo schermo a un intimo rapporto tra fratelli, uniti nell’amore che provano l’uno per l’altro ma divisi nella visione della vita, nell’equilibrio in continua negoziazione tra l’attaccamento alle proprie radici e la voglia di abbracciare il mondo esterno.
Seduti a un tavolo nel baserri, in un momento di magra degli affari, l’impresario Arzadun dice a Martín di concentrarsi sulla fattoria, perché la capacità di adattarsi è la qualità migliore che possieda l’essere umano. «Io credo il contrario: che sia la nostra più grande miseria», risponde Martín con lo sguardo perso a mezz’aria.
La storia che Handia ci racconta ha spesso l’atmosfera eterea di una favola. Contribuisce una musica sospesa, a cui partecipa anche la txalaparta, lo strumento a percussione tipico dei Paesi baschi che si suona in coppia, le cui origini si perdono nei pascoli verdeggianti. Come una favola il film è diviso in capitoli, e come in una favola seguiamo le vicende rapiti, fino alla fine.
Il film è disponibile in streaming su Netflix
Intervista all’attore Joseba Usabiaga
Abbiamo recentemente parlato con Joseba Usabiaga, che nel film interpreta Martín, il fratello del gigante. Usabiaga è nato a pochi chilometri da dove si svolge la storia, e lo abbiamo contattato per fargli alcune domande su di lui, su Handia e sui Paesi baschi in generale.
Potresti descrivere brevemente il tuo percorso professionale? Come sei diventato attore? Come sei stato selezionato per Handia?
Ho iniziato a 17 anni con una compagnia circense facendo il clown. Poi ho partecipato a una serie televisiva basca chiamata Goenkale per ben 11 anni, tempo in cui ho cercato di conciliare anche altri impegni teatrali. Sono entrato nel mondo del cinema nel 2014, prima con due piccole parti e poi ho avuto l’occasione di essere protagonista in Handia. La produzione aveva convocato la maggior parte degli attori baschi e fortunatamente dopo quattro fasi di provini sono stato scelto per il ruolo di Martín.
Qual è il ruolo del cinema basco all’interno del contesto spagnolo e che ripercussione culturale ha nei Paesi baschi?
Credo che negli ultimi dieci anni il cinema basco si sia guadagnato più rispetto in Spagna. È un movimento eccellente ed è considerato un cinema di qualità, sia tecnicamente sia artisticamente. Handia per esempio è girato integralmente in esukera, la lingua basca, e ha vinto 10 premi Goya, assegnati appunto da una giuria spagnola. Poi i film possono andare bene o meno bene, ma gli addetti ai lavori ne hanno un’ottima considerazione. Per quanto riguarda il successo nei Paesi baschi va detto che nessuno è profeta in patria. La gente basca non è abituata a vedere film in euskera e preferisce film spagnoli o americani. Tuttavia le cose stanno cambiando piano piano.
Preferisci recitare in basco o in spagnolo? Che differenze trovi?
Ho la fortuna di conoscere bene entrambe le lingue, quindi direi che mi è quasi indifferente. È vero che gli attori che conoscono molto bene l’euskera non sono poi tanti, quindi posso ambire con un po’ più di facilità ad alcuni ruoli. Per me in effetti non fa molta differenza studiare un copione in spagnolo o in basco, però se devo scegliere preferisco recitare in basco, perché mi piace contribuire alla cultura basca ed essere riconosciuto nella mia terra.
Mi pare di aver capito che nella zona di Tolosa la storia del Gigante di Altzo è molto conosciuta. È frequente parlarne? In che contesti e in che termini?
Sì, io infatti sono di Tolosa, un paese a tre chilometri da Altzo, il villaggio in cui si svolge la vicenda raccontata nel film, e la storia del gigante è conosciuta da tutti qui. Sin da piccolo a scuola ti spiegano che ad Altzo c’era un gigante e ti raccontano la sua vita. Per me è stato un onore interpretare questo ruolo in una storia che conosco da quando sono bambino. Invece Eneko Sagardoy, che in Handia intepreta Joaquín, il gigante, è di Durango, un paese della provincia di Bizkaia, e non conosceva la storia del Gigante di Altzo. Sono contento che questo film abbia contribuito a far conoscere questa bella storia a quelle parti dei Paesi baschi che non la conoscevano e anche al resto del mondo.
Essendo tu di Tolosa, hai sentito un coinvolgimento speciale in questo film?
Un coinvolgimento speciale non direi, perché mi impegno allo stesso modo in tutti i progetti, però è vero che ho sentito una pressione speciale, volevo che il risultato fosse ottimo. A volte ci sono lavori in cui, nonostante tu ci metta il massimo impegno, non ti interessa fino in fondo l’esito che si ottiene. Invece con Handia tenevo molto alla risposta da parte del pubblico, volevo che il film e la mia interpretazione piacessero alla gente, quindi sentivo una grande pressione su di me. Per fortuna è andato tutto bene, moltissime persone hanno visto il film e siamo stati tutti contenti.
Un tema che appare molto interessante, e che il tuo personaggio comunica con una delicatezza eccezionale, è il contrasto tra il desiderio di conoscere il mondo e l’amore per suo fratello. Questo equilibrio tra l’essere consapevoli delle proprie radici e la voglia di abbracciare il mondo potrebbe descrivere sia la situazione di Martín sia la realtà basca in generale, anche contemporanea. Sei d’accordo?
Sì, credo che quello che succede a Martín succede a molte persone. Ricordiamo poi che la storia di questi due fratelli è una storia vera; c’è qualche elemento romanzato, ma le peripezie in giro per l’Europa sono ben documentate. Parliamo della prima metà dell’Ottocento, e questi due fratelli hanno deciso di partire dalla loro piccola fattoria per imbarcarsi verso tante parti d’Europa. Ogni volta che penso a loro rimango affascinato dal loro spirito di avventura. D’altra parte tutti noi abbiamo radici e tutti siamo affezionati alla nostra casa. Quello che Martín, ma anche Joaquín, esprimono chiaramente, e che tutti noi viviamo, è il contrasto tra la voglia di abbracciare il mondo e le possibilità concrete, perché a volte la nostra testa o il nostro fisico non ce lo lasciano fare. I due fratelli appaiono diversi ma spesso complementari. A un certo punto il film propone un bel parallelismo: il gigante dice di sentire le proprie ossa crescere dentro di sé, percepisce il loro movimento, sebbene dei due sia quello che più vorrebbe rimanere a casa; invece Martín vuole scoprire il mondo, partire per l’America, ma ha un braccio immobile e non può realizzare le sue aspirazioni. Allo stesso tempo è vero che forse Martín, anche se avesse potuto, non sarebbe partito lo stesso, mentre Joaquín non vuole muoversi dalla fattoria, ma ogni volta che serve è il primo a essere disposto a mettere in vendita il proprio corpo in giro. Handia è pieno di queste contraddizioni che viviamo tutti noi nelle nostre vite.
Quali credi che siano le caratteristiche peculiari dei Paesi baschi rappresentate in Handia?
Direi soprattutto l’attaccamento speciale alla famiglia e alla casa. Noi baschi sentiamo un grande legame con le nostre radici familiari e con il lavoro nelle case rurali, nelle fattorie, come quella della famiglia protagonista del film, il luogo della stabilità emozionale.
Come descriveresti i Paesi baschi in poche parole?
Sicuramente di partenza non siamo così aperti come potrebbero esserlo gli italiani, per esempio, o le persone che abitano in altre regioni della Spagna. Dobbiamo superare una diffidenza iniziale, ma poi trattiamo il prossimo come se fosse uno di casa. Siamo anche un popolo lavoratore, con un’etica del lavoro molto sviluppata. E poi basta, direi. Alla fine neanche siamo così diversi dal resto del mondo.
Per finire una domanda sui tuoi progetti professionali. Attualmente sei in tour con Gure Zirkua (Il nostro circo, ndr), potresti dirci di che si tratta?
Il progetto Gure Zirkua nasce 24 anni fa. Con i miei colleghi e amici Iker Galartza e Iñaki Odriozola abbiamo iniziato a fare i clown prima nelle scuole, poi facendo il giro dei paesi. Dopo venti anni Iker ha deciso di comprare un tendone e fare lì dentro quello che già facevamo nelle piazze, però con più artisti e più discipline, come un vero circo strutturato. È nato così, in modo molto naturale a partire da una idea che avevamo da tantissimi anni. Questo è il nostro quinto anno in tour; ogni stagione visitiamo una quindicina di posti qui nei Paesi baschi. Il nostro circo ha una capienza di circa 350 persone e per fortuna il pubblico risponde presente. Le cose vanno bene e ci auguriamo di continuare per tanti altri anni.