Con Il traditore Marco Bellocchio porta avanti un discorso cinematografico sul Novecento italiano capace di scavare nel profondo dell’essenza dello spirito nazionale, di smascherarne le ambiguità e i paradossi, di capirne l’umanità profonda.
Buongiorno notte, Vincere, Bella addormentata e adesso Il traditore. Quattro film storici nell’arco di sedici anni per raccontare personaggi e momenti tra due secoli. La capacità enorme di Bellocchio di raccontare il Paese attraverso i suoi protagonisti trova qui una delle forme più alte, grazie anche all’interpretazione strabiliante di Pierfrancesco Favino, ormai consapevole del suo stato di grandissimo e proprio per questo capace di spingersi sempre un passo più in là.
Il traditore del titolo è Tommaso Buscetta, cosiddetto Boss dei due mondi di Cosa Nostra e collaboratore di giustizia fondamentale, a partire dagli anni Ottanta, per smantellare l’apparato della mafia siciliana. Il film di Bellocchio si concentra sugli anni dell’arresto e della collaborazione. Buscetta si era sistemato in Brasile dopo essere evaso dal carcere italiano. Dall’America Latina gestiva un traffico di droga verso gli Stati Uniti e assisteva impotente alle ritorsioni contro la sua famiglia ordinate da Totò Riina durante gli scontri tra clan. Quando nel 1983 la polizia brasiliana lo arresta e lo estrada in Italia, Buscetta decide di collaborare con la giustizia non riconoscendosi più in Cosa Nostra.
Senza mai staccarsi dal loro protagonista, Bellocchio e i co-sceneggiatori Francesco La Licata, Francesco Piccolo, Ludovica Rampoldi e Valia Santella hanno restituito il racconto di uno dei momenti più delicati della storia recente fondendo cronaca e finzione.
Senza seguire un ordine cronologico rigoroso ma affidandosi piuttosto a una sequenza di suggestioni sparse, Il traditore unisce cronaca e finzione e prende molto dai temi cari al cinema di Bellocchio. Al centro di tutto c’è la famiglia, come sempre è sin da I pugni in tasca e fino al recente Fai bei sogni. Buscetta ha tante famiglie: quella di sangue, di figli, fratelli e mogli uccisi e minacciati dalla mafia; quella di Cosa Nostra; quella dello Stato con Giovanni Falcone e gli agenti della scorta che lo fanno.
Tre famiglie diverse che condizionano le scelte e le azioni, che pesano e bloccano. E proprio per questo lasciano solo. La solitudine, altro elemento fondamentale per Bellocchio, è la vera dimensione di Buscetta, lontano da tutti e perseguitato dal passato, come nell’immagine finale che lo vede sul tetto della sua villa di Miami, armato di mitra, a difendere la casa dalla notte.
Sempre isolato, come nella scena iniziale che diventa lo specchio dell’ultima, in quella festa di esponenti mafiosi in posa per una foto, tutti vicini, tutti abbracciati.
Non è un solo un film sul boss dei due mondi. È un film su cosa vuol dire essere mafiosi, su cosa è la mentalità mafiosa. Buscetta rinnega la sua storia, disgustato dalla violenza che si è scatenata contro la sua famiglia. Non fa la stessa cosa Totuccio Contorno (interpretato da Luigi Lo Cascio), anche lui collaboratore di giustizia ma incapace di staccarsi dalla sua natura criminale. Non lo fa Pippo Calò (Fabrizio Ferracane), migliore amico di Buscetta ma fedele a Riina e ai suoi ordini.
Con Il traditore Bellocchio è riuscito a fare cinema civile – e storico – di alta qualità come non si vedeva da anni. La sceneggiatura, solida e accurata, è accompagnata da una regia che si concede numerose variazioni di registro, che mette insieme elementi pop in stile Il divo di Sorrentino o Narcos, che sa rallentare e seguire strade più inaspettate.
Fondamentale per la riuscita del film è l’interpretazione di Favino. Con un impressionante lavoro di mimesi vocale, l’attore romano è riuscito a costruire un personaggio memorabile, sempre in bilico tra fragilità e arroganza, tra ridicolo e malinconia.
A Cannes non è arrivato nessun premio, in Italia intanto ci sono undici nomination ai Nastri d’argento. Sarebbe bello se Il traditore riuscisse ad avere una visibilità internazionale.