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PANAMA PAPERS | Recensione del film di Steven Soderbergh

Dal 2017 Steven Soderbergh ha diretto, fotografato e montato quattro film e una serie tv, che è anche un gioco interattivo e un’app (Mosaic). Non male, considerando che nel 2013 aveva annunciato il suo ritiro dalla regia. L’ultimo film arrivato, Panama Papers, è probabilmente il suo progetto più importante della fase post-ritiro, per cast, trama e presentazione.

Ogni film interpretato da Meryl Streep merita, infatti, la giusta considerazione. Quando poi il soggetto arriva direttamente da uno dei più grandi scandali finanziari degli ultimi anni l’attenzione arriva alle stelle. Panama PapersThe Laundromat in originale – trasferisce in finzione il i Secrecy World: Inside the Panama Papers Investigation of Illicit Money Networks and the Global Elite di Jake Bernstein. Accanto a Meryl Streep ci sono Gary Oldman e Antonio Banderas. Il film è stato presentato alla Mostra di Venezia e al Toronto Film Festival prima di approdare il 18 ottobre su Netflix.

L’anziana Ellen ha perso il marito in un incidente mentre erano in vacanza. Oltre al lutto deve sopportare un’orribile verità sulla sua assicurazione: non esiste. La compagnia assicurativa è una società, che fa parte di una rete di traffici con sede in uno studio legale a Panama.

Soderbergh torna ai tempi di K Street, la serie tv che aveva ideato e diretto nel 2003 sulle lobby di Washington, di cui riprende il tono ibrido tra commedia e denuncia. Torna in mente anche La grande scommessa di Adam McKay. Il tentativo è quello di parlare di attualità finanziaria con un tono leggero e addirittura ironico. Gli espedienti sono gli stessi: rottura della quarta parete e della finzione cinematografica, spettacolarizzazione pop delle immagini, con colori saturi e paesaggi esotici.

La ricostruzione dello scandalo del gruppo Mossack Fonseca si svolge in cinque capitoli che seguono i momenti chiave delle rivelazioni. Il motore di tutto è la vicenda immaginaria di Ellen Martin. Soderbergh e lo sceneggiatore Scott Z. Burns sono animati da un autentico spirito di giustizia sociale, lo stesso che il regista sentiva forte ai tempi di Traffic, di Effetti collaterali e del già citato K Street. Il cast lo segue anche quando mette in chiaro che a parlare non sono i personaggi, ma gli interpreti, che oltre la finzione del film c’è una vera denuncia contro i soprusi della finanza senza scrupoli.

Lo chiarisce il finale, quando Meryl Streep si toglie di dosso vestiti e parrucche di due personaggi, guarda fisso in camera in uno studio cinematografico non allestito e si lancia in un’arringa conclusiva.

Cinema civile, questa è la definizione corretta per Panama Papers, animato da un’indignazione autentica e da un senso di giustizia che non ammette giustificazioni. Un intento di rara nobiltà, che non riesce però a trovare il giusto equilibrio tra le sue varie parti e i suoi due registri principali.

Il compito di rendere frizzante il racconto è affidato alle incursioni della coppia formata da Gary Oldman Antonio Banderas, nei panni di Mossack e Fonseca e narratori del film. I loro vestiti sgargianti, le ambientazioni smaccatamente finte in cui si muovono dovrebbero amplificare il senso di straniamento della vicenda. Rispetto a La grande scommessa manca il ritmo, decisamente, e la velocità nel cambio di registro. Il risultato è un film squilibrato, animato da ottime intenzioni e diretto alla grande da Soderbergh, ma proprio perché parliamo di Soderbergh è giusto dire che avrebbe potuto fare ancora meglio.

(Panama Papers, di Steven Soderbergh, 2019, drammatico, 95’)