di Elisa Scaringi
Nulla è perfetto, ma tutto può esserlo. La perfezione è una questione soggettiva, che cambia allo sguardo, all’ascolto, alla vita che scorre.
In Perfect days, ultimo film di Wim Wenders, è il presente del suo protagonista a essere perfetto, un uomo maturo che ha deciso di orientare la bussola verso il cielo di Tokyo. Il passato è relegato ai ricordi dei sogni; il futuro è semplicemente “un’altra volta”.
Come insegna alla giovane nipote rifugiatasi da lui per qualche giorno, mentre sono in bici di fronte al fiume che porta al mare: “adesso è adesso, e un’altra volta è un’altra volta”. Perché la vita di Hirayama scorre nella contemplazione dell’attimo presente, lontana dai ticchettii degli orologi e dagli schermi dei cellulari, sintonizzata sui rumori del quotidiano, sulla scopa che alle prime luci dell’alba tocca l’asfalto, sui colori del cielo, sulle foglie che danno linfa agli alberi.
Nonostante il silenzio e la solitudine che lo accompagnano, l’uomo raccontato da Wim Wenders non cerca la compagnia a tutti i costi: ha raggiunto la beatitudine di chi sa stare al mondo da solo, senza essere scostante o misantropo. Anzi, a dirla tutta, l’equilibrio della sua esistenza lo rende profondamente altruista, perché totalmente immerso nel quotidiano che lo attraversa e gli sta accanto.
L’insegnamento principale di tutto il film sta proprio in questo: la velocità dei tempi moderni, l’evanescenza della musica di oggi, l’intangibilità delle relazioni sui social, sono le cattive compagne di una vita che vorrebbe essere sana e vera, serena e piantata coi piedi per terra, e che invece è consumistica fino al midollo, attaccata ai soldi e alle cose materiali.
Nemmeno il quartiere Shibuya dove si reca tutti i giorni a lavorare, con la sua stazione centrale e il grande incrocio pedonale, rappresenta una distrazione per Hirayama: alla confusione della metropoli preferisce gli alberi del parco Yoyogi-kōen, allo sferragliare dei treni sostituisce la bici, alla musica digitale impone il vecchio suono delle audiocassette, alla televisione sceglie i libri e le scene immaginifiche che accompagnano il sonno.
Il protagonista di Perfect days non si sente in imbarazzo di fronte a chi, diversamente da lui, non comprende la scelta di una vita diversa. Come il suo giovane collega, ritardatario cronico e indolente alla fatica, proiettato a una realizzazione personale che deriva dal denaro più che dalla coscienza. Il rapporto col lavoro è infatti distorto da un’idea, tutta occidentale, che per essere felici si debba per forza rincorrere il successo, con vana ostinazione e inutile ossessione. Hirayama, invece, sa bene che il sudore nobilita l’uomo, e anche pulire un bagno pubblico può rappresentare una forma di arte: i suoi gesti, attenti e precisi, stanno quasi a celebrare i grandi architetti che hanno progettato i Tokyo Toilet, simbolo di ospitalità e segno di una civiltà avanzata, che nulla ha da invidiare alla cultura occidentale.
Il personaggio scritto da Wim Wenders e Takuma Takasaki fa delle scelte radicali, che hanno però uno strettissimo legame con la serenità del quotidiano, tanto da risultare normalissime (e invidiabili) a chi guarda il film. Hirayama non si adegua a un’idea di vita imposta dall’alto o dalla massa, né a una cultura totalizzante che stia necessariamente dalla parte di un unico potere globale. Anzi, lui ha scelto la libertà, quella che nasce da un cuore aperto e da una mente consapevole, capace di spazzare via ogni forma di paura. Dall’Occidente prende la musica anni Sessanta e Settanta, facendosi accompagnare alla guida dal rock delle sue audiocassette, e la letteratura di Faulkner, col suo sguardo attento alla dignità umana e a una natura che soccombe sotto il peso della civiltà meccanica. Dall’Oriente eredita la sfida alla contemplazione della natura e della vita stessa, fatta di gesti semplici, di germogli che fioriscono, di sguardi compassionevoli, di silenzi che sfidano il baccano.
Hirayama è il monaco dei tempi moderni, il lavoratore che ha trovato la chiave per vivere giorni perfetti.