Quando nel 2016 Lo chiamavano Jeeg Robot faceva la sua apparizione alla Festa del Cinema di Roma, sembrava che una nuova stagione di cinema italiano stesse per cominciare. Sette anni più tardi, alla stessa kermesse, Rapiniamo il duce di Renato De Maria dimostra che gli esempi positivi possono portare – anche – a risultati piatti e derivativi.
Rapiniamo il duce racconta la storia di un gruppo di ladri capitanato da Pietro Castellitto nella Milano del 1945. Gli Alleati sono sempre più vicini e il nazifascismo vive i suoi ultimi giorni di fughe e violenze sommarie. In questa cornice, la banda confida nella complicità di una cantante di night per avvicinare in gerarca Borsalino e mettere le mani sul tesoro nascosto di Mussolini.
Ci sono due campanelli che suonano subito in mente sin dai primi minuti di Rapiniamo il duce. Il primo è inevitabilmente Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino. Il secondo è Freaks Out di Gabriele Mainetti, che già aveva preso molto dal modello tarantiniano per la sua opera seconda.
Se l’idea di partenza del film di Renato De Maria risulta interessante, la resa non è assolutamente all’altezza delle premesse e dei modelli. I limiti principali rientrano all’interno dei consueti difetti delle produzioni cinematografiche Netflix che non riescono ad arginare o evitare le ovvietà del cinema italiano. Nonostante un impianto complessivo ottimo, non si può non notare in questa recensione di Rapiniamo il duce che prevale sempre l’impressione del “buona la prima”. Scrittura e recitazione finiscono in fretta per suscitare perplessità. Malgrado un cast di livello che include Matilde De Angelis, Tommaso Ragno, Filippo Timi e Isabella Ferrari, assistiamo a prove incerte e limitate. Sorprende – fino a un certo punto – che il migliore risulti Maccio Capatonda, al primo ruolo al di fuori dei film a misura dei suoi personaggi.
Il risultato è quindi un film che sbanda per trovare la propria identità. Tra romanticismo semplice e inutili inserti fumettistici, non si capisce quale linguaggio prevalga. La cifra principale è la ripetizione. Le svolte sono prevedibili, così come le dinamiche che legano i personaggi. E se la colonna sonora con brani presi dalla musica leggera italiana è interessante, la scelta di concedere spazio alle doti canore di De Angelis è stantia e ripetitiva.
A mancare a Rapiniamo il duce è quel guizzo che lasci immaginare un possibile modo nuovo per il cinema italiano di confrontarsi con la storia.
Nel 2015 il merito principale dell’esordio di Mainetti era il coraggio di confrontarsi con i modelli statunitensi senza temere i limiti produttivi del nostro cinema. Il suo cinecomic romano aveva lo stesso coraggio degli spaghetti western degli anni ’60 e ’70. Una sfrontatezza quasi incredibile che porta al confronto con un genere che richiede enormi budget e tecnologie in un immaginario al cento per cento statunitense.
Rapiniamo il duce assomiglia invece alla brutta versione di Tarantino e spreca un potenziale interessante sotto tanti aspetti.
(Rapiniamo il duce, di Renato De Maria, 2022, azione/commedia, 95’)
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