di Elisa Scaringi
«Noi siamo il mondo, noi siamo i bambini». Queste parole risuonarono per la prima volta nella notte del 28 gennaio 1985. Presso gli A&M Studios di Hollywood più di quaranta artisti vennero chiamati a raccolta da Lionel Richie e Michael Jackson, a loro volta coinvolti da Ken Kragen e Quincy Jones per un’idea di Harry Belafonte, risentito del fatto che i britannici, con il brano Band Aid, avessero battuto sul tempo gli afrioamericani nell’aiuto concreto contro la fame in Africa.
Trentanove anni dopo, Netflix produce un documentario – We Are the World: la notte che ha cambiato il pop – sulle ore che diedero alla luce una canzone di grandissimo successo, vincitrice di quattro Grammy Award. Al di là delle critiche poi mosse a quella che da molti è stata definita una semplice trovata pubblicitaria, anche nelle stesse parole del testo, l’incisione del brano ha rappresentato un momento irripetibile nella storia della musica. Già il fatto di non saper scegliere quale artista nominare per primo nella lunga lista di coloro che aderirono al progetto (Bob Dylan? Bruce Springsteen? Ray Charles? Lionel Richie? Michael Jackson? Stevie Wonder? Diana Ross? Tina Turner?), conferma l’unicità di quella notte, durante la quale ci fu addirittura uno scambio di autografi tra cantanti.
Il documentario di Netflix sottolinea molto la familiarità e lo spirito di coesione che caratterizzò quel momento, tant’è che molti, tornando a casa alle otto del mattino, non riuscirono a togliersi di dosso l’emozione dell’esperienza vissuta e la commozione perché fosse già finita alle prime luci del giorno. E questi sentimenti passano attraverso lo schermo, contagiando chi guarda, che arriva a chiedersi come mai il documentario duri il tempo di una sola puntata. Vedere un Bob Dylan, impacciato nell’esibizione davanti ai colleghi, essere aiutato poi da Stevie Wonder a intonare il suo controcanto, suscita una certa tenerezza. Come pure quando Lionel Richie e Michael Jackson, autori del pezzo, si rimboccano le maniche per aiutare il coro dei grandi nell’interpretazione del pezzo.
Quel tempo musicale purtroppo non tornerà più, mentre l’Africa è ancora lì, impoverita e sfruttata. Una canzone provò ad accendere i riflettori sulla carestia in Etiopia, facendosi portavoce di una raccolta fondi a livello mondiale, anche se lo slogan ufficiale recitava «Usa for Africa». Ma non riuscì a cambiare poi effettivamente le cose. A guardare ora quelle immagini un po’ sgranate ci si chiede come mai le mobilitazioni per le cause civili non trovino quasi mai una risoluzione definitiva nella politica e nella diplomazia. Ieri come oggi, quando (guarda caso) il nostro paese ospita i leader africani per presentare l’ennesimo progetto di sfruttamento occidentale.